Oltre i confini della libertà d’espressione online.
La così chiamata cancel culture, o più semplicemente cultura della cancellazione, è un argomento ormai entrato di diritto a far parte dei trend topic della società virtuale. Infatti, sarà capitato milioni di volte di imbattersi in casi di cancellazione online, ma probabilmente non ne siamo mai stati consapevoli o non sapevamo dare un nome a questo fenomeno.
Cos’è la cancellazione e quali sono le sue conseguenze è ancora un mistero per molti utenti del web, ma oggi siamo qui per fare un po’ di chiarezza e rispondere a tutti i dubbi del caso!
- Cos’è la Cancel Culture?
- Tra responsabilità e capro espiatorio
- Pro e contro
- Come influenza la comunicazione aziendale
- Considerazioni finali
1. Cos’è la cancel culture?
Per farla breve, è la tendenza degli utenti a mettere alla gogna e “cancellare” persone o gruppi di persone, per aver espresso opinioni e/o azioni considerate offensive per la folla che popola le piazza del web.
Il fenomeno trova il suo terreno più fertile su piattaforme social come Facebook, Instagram, TikTok e Twitter. Infatti, sono proprio questi i canali in cui la cultura della cancellazione raggiunge il suo exploit, con utenti che presentano sempre più sintomi di insofferenza a riguardo. Ironicamente, potremmo dire che il pubblico dei social si divide tra i paladini della libertà di parola e i giustizieri mascherati che, esattamente come Batman, mirano a riportare l’ordine in un ambiente ben più selvaggio della cara e vecchia Gotham City.
2. Tra responsabilità e capro espiatorio
Internet insegna che basta poco, un piccolo fiammifero acceso a vento contrario e BAAAM! Un tranquillo scambio di opinioni diventa uno spettacolo di gladiatori e, lo sappiamo, i nostri leoni da tastiera non hanno niente da invidiare a quelli del Colosseo.
A chi non è capitato? Sei nel tuo letto, col cellulare in mano, che ti guardi i soliti meme, le fakechat trite e ritrite, le foto di quel tuo amico che (non si sa come) è in vacanza per 6 mesi l’anno… Insomma, ti stai annoiando da morire. Come possiamo mettere un po’ più di pepe a questa sessione di zapping? Facile, basta scendere nei commenti e qualcuno intento a buttare benzina sul fuoco lo troviamo di sicuro!
Le arene del Web offrono a tutti uno spettacolo gratuito e in diretta, il problema? Non hai nessuna garanzia di rimanere per sempre seduto in tribuna: tutti possiamo diventare un potenziale capro espiatorio.
Il New York Times ha riportato che molte persone residenti negli Stati Uniti percepiscono la loro libertà d’espressione limitata dal fenomeno della cancellazione, tanto da preferire evitare il dibattito pubblico per paura della “shitstorm”, l’incontrollabile ondata di critiche e insulti che segnano il passaggio di testimone da spettatore a gladiatore.
Parallelamente, c’è chi preferisce definirla “cultura della responsabilità” piuttosto che della cancellazione. Specialmente dopo il dibattito intercorso nel caso di Twitter contro l’ex presidente Donald Trump, sono aumentati i sostenitori della responsabilità per le proprie azioni sul web. In questi casi, la cancellazione è percepita come uno strumento per denunciare abusi e discriminazioni lì dove lo Stato non riesce a garantire la tutela dei diritti dei più deboli.
Il problema su entrambi i fronti sono gli estremi del fenomeno. Anche se volessimo vedere nella cancellazione uno strumento di responsabilizzazione, non possiamo ignorare il fatto che molte di queste nobili lotte contro il crimine non puniscono qualcosa di veramente illegale, ma piuttosto ciò che in quel momento urta la sensibilità della massa. Non si parla quindi di infrangere la legge, ma le conseguenze saranno da scontare sia sul lato sociale che professionale.
3 - Pro e contro
Evelyn Beatrice Hall scrisse la celebre frase: «Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo». Dall’altro lato abbiamo Harlan Ellison che, invece, regge la bandiera del: «Non hai diritto alla tua opinione. Hai diritto alla tua opinione informata. Nessuno ha il diritto di essere ignorante».
Chi ha ragione e chi ha torto? Probabilmente nessuno dei due. Tuttavia, possiamo fare un breve riassunto dei pro e dei contro della cultura della cancellazione.
PRO
- Permette alle vittime di abusi e discriminazioni di avere uno strumento di denuncia per i comportamenti inappropriati e/o offensivi.
- Mantiene l’attenzione e aumenta la consapevolezza degli utenti sulle questioni sociali.
- Incoraggia a riflettere sulle conseguenze e ad assumersi la responsabilità delle proprie azioni.
- Se ben sfruttato, può creare un ambiente più sano in cui le persone sono attente alle opinioni e ai sentimenti degli altri.
CONTRO
- Per chi viene messo alla gogna pubblica, le ripercussioni sulla vita privata, lavorativa e sociale possono avere effetti negativi anche a lungo termine.
- Incoraggia la “caccia alle streghe” e la denigrazione pubblica.
- Fa perdere la voglia di interagire online per evitare spiacevoli conseguenze.
- Incoraggia la rimozione di errori e pareri diversi dal nostro, anziché farci concentrare sull’apprendimento e sulla crescita.
4. Come influenza la comunicazione aziendale
Le aziende non sono escluse dalla cancel culture e si trovano a dover navigare in acque turbolente. In un mondo in cui l’integrità, i valori e l’immagine aziendale sono potenti leve di mercato, i vertici aziendali devono prendere decisioni in un ambiente in cui molti consumatori sono attivi, mobilitati a livello sociale e politico.
I valori abbracciati da una certa comunità diventano così un potente mezzo di marketing, e l’istinto di fronte alle shitstorm è quello di fare ciò che è più conveniente dal punto di vista del economico: liberarsi di persone e iniziative per evitare danni alla propria immagine e al brand.
Ma cosa può succedere a una azienda quando incappa nel maremoto della shitstorm? Abbiamo raccolto alcuni esempi di aziende che, a causa di una comunicazione non ottimale, hanno dovuto fare i conti con la cancellazione.
- Pepsi e il ritiro dello spot pubblicitario con Kendall Jenner. In un periodo di forti disordini tra manifestanti e forze dell’ordine, lo spot è stato accusato di razzismo e di minimizzare il problema dell’eccesso di violenza della polizia sui cortei di protesta.
- H&M e la rimozione della foto del bambino in felpa verde. La nota marca di abbigliamento svedese è stata accusata di razzismo dopo aver pubblicato una foto di un bambino di colore con una felpa verde. Fin qui nessun problema, se non fosse che la scritta sopra a quella felpa recitava “la scimmia più cool della giungla”.
- Il boicottaggio di Victoria’s Secret. Accusata per l’immagine e la rappresentazione delle donne veicolata nelle sue pubblicità, i prodotti del marchio Victoria’s Secret sono stati boicottati dai gruppi femministi e dagli attivisti per i diritti delle donne.
- Dolce&Gabbana e gli stereotipi sulla Cina. La famosa casa di moda italiana è stata boicottata dagli e-commerce cinesi con l’accusa di presentare spot sessisti e pieni di stereotipi sulla popolazione cinese.
- La Disney licenzia James Gunn. Il noto regista della saga Marvel di “Guardiani della galassia” è stato licenziato dalla Disney dopo che alcuni critici hanno riportato alla luce vecchi tweet con contenuti offensivi.
Morale? Davanti alla logica del moderno capro espiatorio non c’è dimensione o fatturato che tenga: siamo tutti uguali, aziende comprese!
5. Considerazioni finali
Molti dei casi sopra citati, hanno sollevato domande sulla questione della cancel culture e su come le aziende dovrebbero gestire le accuse che ledono l’immagine del brand e/o quella dei loro collaboratori. Ma una cosa è certa, per chi sta “ai lati” dell’arena del web, denunciare il nemico ed entrare nel gruppo dei difensori incrementa (seppur per breve tempo) il proprio status sociale online.
L’azione collettiva del gruppo, formato da persone che non si conoscono ma che si trovano casualmente sotto la stessa bandiera, produce un senso di soddisfazione istantaneo. Il compiacimento collettivo, la sensazione di appartenere al “giusto”, è ciò che fa dimenticare a tutti il ruolo incarnato da sempre, online e offline, dal capro espiatorio. Trovare un colpevole a cui far scontare i peccati di un intero sistema.